martedì 17 dicembre 2013

Gli zingari del mare a Rawai (Phuket)


I Chao Lay, sono gli ultimi rappresentanti di una popolazione Indo-pacifica, di religione animista, immigrata nel Mar delle Andamane circa 5000 anni fa. Questa popolazione di pescatori oggi ridotta a circa 400 individui, è vissuta liberamente nell'isola fino a qualche anno fa, il turismo di massa e lo sfruttamento intensivo di Rawai Beach ne hanno di fatto modificato "l’integrità culturale" ed usanze. L'incontro con gli zingari del mare, dal colorito bruno che li fa assomigliare agli indonesiani, avviene nella baia di Rawai, sullo sfondo le palme da cocco nascondono le caratteristiche case in legno su palafitte che i Chao Lay costruiscono nei pressi delle spiagge dove trovano rifugio. Il mare limpido culla le barche affusolate, dai colori vivi, con motori fuori bordo con l'asse incredibilmente lungo, da cui deriva il nome long tail, che sono capaci di muoversi anche sui bassi fondali. La spiaggia, poco frequentata da nuotatori a causa del fondo fangoso, è una tappa interessante proprio perché confina con il villaggio dei Chao Lay e il loro mercatino del pesce. Si pensa che gli zingari del mare, provenienti dal mar delle Andatane e che parlano un dialetto simile al malese, siano i più antichi abitanti di Phuket. Sono una piccola comunità matriarcale, poche centinaia di persone che ancora oggi vivono di pesca e che trovano rifugio in quest'enclave, circondata da villaggi turistici. "Lo sfruttamento intensivo di Rawai Beach mette a rischio l'integrità culturale e le usanze della mia gente" spiega Sam mentre i suoi compagni stanno ultimando i preparativi per uscire a pesca "oggi solo un terzo del nostro popolo vive costantemente in mare gli altri, che stanno sulla terraferma, spesso sono costretti a spostarsi dall'avanzare delle strutture turistiche. Solo comunità come quella di Kho Phi Phi, localizzata in una zona costiera di difficile accesso, può sperare di sopravvivere indisturbata". La barca prende il largo, all'orizzonte spuntano, come piovuti dal cielo, alti faraglioni punteggiati di verde rigoglioso, scogli, piccole isole verdi collinose che si affacciano su fondali incantevoli. La barca arriva sul posto prefissato, l'eventuale presenza di nasse non è segnalata in superficie per evitarne l'identificazione da parte dei concorrenti. I pescatori iniziano la vestizione, le mute sono in realtà pantaloni di tuta e magliette a maniche lunghe, i piedi calzano mocassini di plastica che consentiranno di camminare veloci sul fondo, le mani sono protette da guanti per evitare le pericolose ferite di coralli e rocce. Dalla maschera, che Oak e Touk appoggiano con cura sulla faccia, esce un tubo simile a quello che usiamo nei nostri giardini per bagnare le piante, ma è lungo diversi metri ed è acciambellato sul fondo della barca con l'estremità collegata a un compressore. Da li verrà pompata l'aria mentre i pescatori lavoreranno sott'acqua. Prima di saltare nel blu ciascun uomo si premura di avere con sé i tre anelli di metallo di circa venti centimetri, intersecati tra loro, strumento indispensabile per convogliare i pesci verso la rete. Tuffatisi in acqua i pescatori arrivano rapidamente sul fondo dove raccolgono la pesante pietra che permetterà loro di spostarsi senza riemergere. Oak e Tong operano agili attorno alla rete sistemata a u in attesa dei pesci. Gli uomini scuotono con forza i cerchi di metallo, il rumore si diffonde nel mare, terrorizza i pesci che si muovono veloci per allontanarsi dal frastuono e cadono in trappola senza possibilità di scampo, la rete si chiude. La risalita sarà più lenta della discesa. I rischi corsi sono molti. La rete viene issata, il fondo della barca si riempie di pesce mentre Oak e Tong riemergono, anche oggi hanno portato a termine il lavoro, hanno assicurato cibo alla loro comunità.

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